Matteo Giulio Bartoli (1873-1946) fu allievo del linguista svizzero Wilhelm
Meyer-Lübke a Vienna, che lo definì il più ribelle e sostanzialmente il più
fedele discepolo, fra quelli almeno che non hanno superato i limiti del suo
positivismo. In seguito, studiò a Strasburgo alla cattedra di Johann
Heinrich Hübschmann, che in Francia insegnava filologia comparata. Si perfezionò
poi a Parigi, con Jules Gilliéron, uno dei fondatori della geografia
linguistica. Fin dalle sue prime pubblicazioni manifestò un preciso interesse
interesse verso lingue arealmente contigue e verso l’individuazione delle
affinità dovute a contiguità, dedicando ricerche alle parlate italo-romanze, o
al dalmatico, e ad altri idiomi della penisola balcanica, come attesta un’ampia
rassegna di studi rumeni allora apparsa negli Studi di filologia romanza
nel 1901. Nel 1906 scrisse un importante saggio sulla parlata romanza di Veglia
(estintasi nel 1898), che nel 1907 gli valse la cattedra di Storia comparata
delle lingue classiche e neolatine presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università degli Studi di Torino; mutata la denominazione del corso in
Linguistica (1925) e in Glottologia (1939), tenne l’insegnamento fino alla
morte. Bartoli fu un esponente di primissimo piano degli studi glottologici in
Europa grazie alla novità delle sue proposizioni metodologiche, in contrasto con
l’imperante dogmatismo di ascendenza neogrammaticale, legando il suo nome alla
‘teoria neolinguistica’ e alle cosiddette ‘norme areali’. Nel 1923, dopo la
morte di Ernesto Giacomo Parodi Parodi, si impegnò ad avviare il progetto
dell’Atlante Linguistico Italiano, con l’appoggio di Giulio Bertoni, suo collega
all’Università di Torino, anche se risultò subito determinante il coinvolgimento
di Ugo Pellis, presidente della Società Filologica Friulana. Ecco quindi che i
suoi studi riferiti alle lingue indiane riconducono all’interesse del linguista
e del glottologo, piuttosto che alla partecipazione al movimento degli studi
orientalistici italiani.